L’attesa era tanta. Si, per una limonata, ma una celeberrima limonata, che Beyoncè ha offerto a tutti i suoi fan, e al mondo intero. “Vabbè alla fine si tratta di un album” mi direte, niente di che. E invece no ragazzuoli, perché Queen B ha spostato l’asticella più avanti. Si era già distinta dalla massa in quel del 2013 con l’omonimo visual album Beyoncè del 2013, caratterizzato dall’aver girato un video per ogni brano. Tale progetto è stato ampliato e portato alle estreme conseguenze in questo progetto discografico, #Lemonade.

https://youtu.be/CCuspXb7Nmk

Partiamo da un presupposto: non è il migliore degli album che Mrs Carter ci ha propinato sino ad ora, anche se a mio avviso il paragone non renderebbe giustizia. Vi spiego meglio: Lemonade è un vero e proprio medio-metraggio, ovvero ogni canzone della tracklist, così come i relativi video, rappresentano una sequenza precisa della trama, uno specchio del suo stato d’animo. Pilastro portante di #Lemonade è il tema del tradimento; è un susseguirsi delle fasi che scaturiscono dopo che una donna subisce un tradimento. Che secondo me non è un tradimento reale, ma semplicemente una trama ben interpretata, Bee si è calata perfettamente nella parte, quasi insinuando nella mente dell’ascoltatore il dubbio: “… ma vuoi veder che Jay z ha perso veramente la testa?”. Anche perché se Beyoncè è realmente un cervo a primavera, ahimè, per le comuni mortali che speranza c’è? Ricapitolando insomma, è un viaggio di 57 minuti attraverso Intuizione, Negazione, Rabbia, Indifferenza, Vacuità, Responsabilità, Trasformazione, Perdono, Rinascita, Speranza, Riscatto. Si comincia con la lenta Pray you catch me, in cui si insinua in lei il sospetto del tradimento, per poi proseguire con con la midtempo Hold Up (la fase della negazione) con una Beyoncè versione furia spacca tutto che è un vero spasso e Don’t hurt yourself, brano dalle influenze cupe rock che esprimono precisamente ciò che sente: rabbia (Non hai sposato una p****na qualunque, urla). Andiamo avanti ed arriva la chiacchierata Sorry, che ci catapulta nel capitolo dell’indifferenza e dell’apatia. Il brano è molto più vicino alle sonorità tipiche della discografia recente di Beyoncè. Esplicito è il riferimento alla presunta amante Becky with The good air (Rihanna, Rita Ora o personaggio di fantasia?) e di ascoltare le scuse del marito traditore non vuole saperne. Guarda un po’ è diventato il lead single del progetto. Si continua con 6 Inc: il sound del brano è tipico del featured artist, The Weeknd, cartina tornasole di una donna i cui sentimenti sono congelati, una donna svuotata che mira solo al denaro e al potere. Ha toccato il baratro ed ora non può far altro che risalire. In effetti è così: è il turno di Daddy Lesson che ci parla del rapporto padre figlia e delle responsabilità che ricadevano su di lei (“Papà mi diceva prenditi cura di tua madre e tua sorella”). Convince il sound che richiama le origine Texane di Bee con il suo ritmo catchy-country. In Love Drought avviene la trasformazione: non si può cancellare la vita insieme, ed apre uno spiraglio di luce nel buio della sofferenza (“tu ed io saremmo in grado di smuovere una montagna, di far finire una guerra, di far piovere ora”), una voce quasi sussurrata all’interno del brano, che ho apprezzato molto. Eh già, anche i ricchi piangono e anche una donna ferita può perdonare: Sandcastle è il ritorno della Beyoncè che piace a noi, che offre ballad potenti e coinvolgenti. Di lì a Forward il passo è breve (“Torna a dormire nel tuo posto preferito, accanto a me”.) Un aspetto non trascurato in questo progetto è quello della celebrazione della Black-culture: dopo una citazione di M.L.King, Beyoncè interpreta un inno alla libertà della popolazione afroamericana in compagnia di Kendrick Lamar (un po’ come in Formation). Il cerchio si chiude con All Night: la rinascita dell’amore che supera  il tradimento che ha spezzato il matrimonio.

Insomma, complessivamente un lavoro molto concettuale e sperimentale. L’ho apprezzato anche perché ci dimostra la versatilità dell’artista nello spaziare da un tipo di suond all’altro. Qui Beyoncè si propone non solo come cantante, ma come interprete ed artista a tutto tondo.

Non si tratta di un insieme di brani, è una sorta di musical ed ogni brano è lì esattamente dove ti aspetti che sia, quasi perfetto nell’esprimere ciò che le sta passando per la testa. Più sintetico il giudizio qualcuno di mia conoscenza:

“Ma non erano meglio due paccheri?”

That’s all. Linea allo studio.

Diego Ferrigno